LORENZO BECHI

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3/2/2015

HALIBUT -Una recensione di Valentina Maìni-

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HALIBUT

Che il nostro fosse un tempo liquido ce lo avevano già detto i saggi, che animali e uomini si somigliassero parecchio alcuni scrittori e qualche amico. Lorenzo Bechi tira le somme e ci ripete non solo che in questa melma ci nuotiamo, ma anche che non siamo altro che pesci, pleuronettiformi, abbastanza grandi e predatori: halibut, insomma. La metafora è questa, dichiarata sin dal prologo, ed è un peccato, perché il film arriva, senza bisogno di suggerimenti. Se il mondo attorno è fluido, la regia poggia invece su basi solide e su una struttura che spezza, ordina e divide, reagendo forse proprio a questa instabilità di fondo: un prologo e un epilogo incorniciano sette capitoli che a loro volta ospitano vari soliloqui, scimmie e bassotti. Il tutto rigidamente separato, isolato, come a tracciare un confine che nella realtà non si riesce a vedere ma che esiste, nonostante le ripetute connessioni. Chi ci parla, dritto in camera, lo fa sempre e solo da spazi chiusi, miseri, claustrofobici, senza capo né coda. Confessioni fatte a un signor nessuno che forse potrebbe liberarci, portarci fuori, più in alto o più in fondo, da qualche altra parte insomma. Pescarci. Se c’è un contrasto celato in questo film, infatti, un conflitto molto più profondo di quello fra uomo e animale, è quello tra basso e alto, terra e cielo. Il tentativo è sempre quello di staccarsi dal suolo, o di confondere le due dimensioni, in modo che le nuvole possano trovarsi a portata di mano e le radici molto più su: e così il pavimento diventa mare e cielo, luogo in cui nuotare o esercitarsi per i propri numeri da equilibrista. Un uomo rompe la noia tentando di fare una verticale, e lo squalo suonatore di fischietto ammette che il suo più grande sogno è quello di volare. Si cerca una finestra da cui sporgersi, anche se i binocoli puntano sempre contro uno stesso muro. “Meglio soffrire di vertigini o stare benissimo sul fondo?”, ecco la domanda da cui forse parte Bechi, facendo girare intorno i suoi personaggi fino a far cascare il mondo. Un mondo dove tutto è così strano, eppure niente appare irriconoscibile. Il regista approfondisce l’uso della maschera – già impiegata nel precedente Bathrooms – ma questa volta la plastica sembra non nascondere più nulla: il vero volto è venuto a coincidere con l’involucro artificiale, chi ci parla non è vestito da cane o da squalo, ma è un cane, è uno squalo. I ruoli si sono affinati così tanto da sostituirsi al vero volto umano, cancellandolo per sempre. Esistono scimmie in mutande che suonano la chitarra, o che fanno liste per progetti di vita, esistono cani tabagisti o che sferzano colpi di pugilato contro sé stessi finendo a terra in uno schiamazzo di latrati. Esistono, e Lorenzo Bechi ci chiede di guardarci intorno e credergli. Credere a esseri umani sempre a disposizione, che stringono le mani al nulla di fronte a loro, credere che essi siano capaci di amare le sedie, i tubi di acciaio, i manometri per la pressione, le pattumiere, amarli tanto da finire per scoparci insieme per poi gettarli via con rabbia. Come accade con Bathrooms la tristezza emerge con la comicità, insieme ad essa, nella dinamica tra i dialoghi brillanti a ritmo spedito e il contenuto squallido e sconnesso, nell’alternanza tra la miseria e i pezzi di Chopin. Ma questa volta, c’è qualcosa in più, o in meno, una specie di lentezza, di noia forse, che contrasta con il montaggio serrato dei dialoghi: una forza che agisce in opposizione, che tenta di arrestare il tempo veloce della vita. Lo sguardo del regista è attento, paziente, umano, come sbalordito di fronte alle capriole di quegli strani esseri viventi che ha deciso di filmare e che sembrano muoversi liberamente, all’interno di una gabbia. Ci chiede un nuovo ascolto, lo esige, contro le trame e la logica, il movimento isterico delle cose che succedono. A tratti pare di trovarsi in teatro, di fronte alla performance di un attore a cui il regista ha chiesto di improvvisare, dandogli un paio di oggetti qualsiasi tra le mani. A tratti, il film, somiglia più a un documentario, ma i nostri occhi puntano verso uno specchio e non a animali esotici dietro le sbarre. Altre volte, quello di Bechi, sembra avvicinarsi alla video arte o a un semplice esercizio, forse un po’ troppo suo, quasi un abbozzo per qualcosa di più grande, più maturo, che ha ancora bisogno di tempo per articolarsi in maniera aperta. Meno scorrevole del precedente, più espressionista, meno ritmato, più intenso, Halibut è un viaggio solitario, onirico e realistico insieme, divertente e disperato, che si fa beffa di tutto, e nuota, nuota.


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